Sabato 29 novembre: scende una saracinesca sulla storia di Trieste

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Un grande imprenditore cittadino s’arrende. Godina chiude. Ha deciso di abbassare le saracinesche oggi sabato 29 novembre 2014. La data anticipata rispetto a una prima previsione di chiusura si spiega con una serie di fattori, come già reso noto alla cittadinanza da Annalisa Godina, amministratrice della società, in un’intervista riportata dal «Piccolo», tra i quali l’approssimarsi di un clima natalizio che dalle vetrine del negozio di abbigliamento cittadino più noto ha saputo proporre un immagine di sfarzo e serenità, ma anche, rivela l’intervistata, «ci sarebbero dei problemi pure con i regali. Perché, chi riceve un regalo deve avere la possibilità di cambiarlo, di sostituirlo dopo le festività e se noi dovessimo chiudere a fine anno come avevamo previsto, priveremmo i clienti di questo diritto». Quindi, l’attenzione alla clientela e la correttezza di trattarla con professionalità si confermano fino all’ultimo, nonostante il difficilissimo momento che l’azienda sta attraversando.

I commenti sulla chiusura su internet si moltiplicano, la cittadinanza esprime il proprio dispiacere e solidarietà con i titolari, si preoccupa dei dipendenti che a rotazione usufruiranno della cassa integrazione e a fine anno, tutti a casa. Che ne sarà di loro e delle loro famiglie?

Ma c’è anche chi critica le istituzioni che non hanno saputo dare un sostegno a questo grande negozio che ha fatto la storia di Trieste e del suo commercio. Oggi il destino di Godina rappresenta la più visibile cartina di tornasole di un generale malessere che attanaglia i settori economici della città.

Torniamo alla data di chiusura, il 29 novembre. Certamente una scelta razionale per abbreviare l’agonia dell’ammalato. Ma inconsapevolmente, la data colpisce i fedeli clienti, quelli “Jugo”, anch’essi ormai diventati “ex”, coloro che per decenni erano pronti ad imbarcarsi in ogni tipo di vettura con le targhe più disparate che indicavano le cittadine di provenienza dai profondi Balcani assieme a quelle delle città vicine, Lubiana, Zagabria, Spalato, Fiume…

Per tutti il 29 novembre, Dan Republike, il giorno della Repubblica, quella che nasce nel lontano 1943 a Jajce in Bosnia in pieno periodo di guerra, avrà un profondo significato. In quella data in una Bosnia stretta nel gelo polare, l’AVNOJ – il Consiglio antifascista della liberazione popolare della Jugoslavia – convocava i delegati di tutte le formazioni partigiane. Questi giunsero a destinazione dopo estenuanti marce dai territori liberati delle più lontane aree del paese e in seduta plenaria presieduta dal croato dr. Ivan Ribar, si proclamò l’assetto federale della Jugoslavija, si costituì la Skupština, si vietò il ritorno al Re nel paese, Tito ricevette il titolo di maresciallo e si gettarono le fondamenta del futuro sistema parlamentare jugoslavo.

Il 29 novembre per decenni è stato celebrato come il giorno di fondazione della Jugoslavija e che si festeggiava con ben tre giornate “libere”.

Per gli scolari erano giorni di recite e di cori dei pionieri, per i contadini giorni propizi per la macellazione del maiale e la produzione delle salsicce ad esempio, per la popolazione urbana, “tempo liberato” per lo svago e spesso per gite turistiche sognate un intero anno, e – per la moltitudine dei seguaci dello shopping – il 29 novembre significava una cosa sola: andare a Trieste.

Da poco si è chiusa a Pola, e il 17 dicembre aprirà a Novi Sad, la mostra curata da Wendy D’Ercole e Massimiliano Schiozzi che ricostruisce questi anni di shopping: l’immancabile Trieste, Ponterosso, andare da Giovanni, Upim, Standa… Ma un passaggio da Godina era obbligatorio per chi invece delle “straze” nelle bancarelle preferiva (anche per la disponibilità di tasche più profonde) acquistare abbigliamento di qualità, solido, duraturo, quello che al primo lavaggio non perde colore o si restringe in taglie subito sgualcite.

Godina era simbolo di qualità. Di una moda forse adatta alle classi agiate e di media età, non tanto ai giovanissimi. Ma anche questo cambiava, l’offerta di capi modernissimi e di firme rinomate ci tentavano dalle vetrine ed erano abbordabili più di quelli delle boutique che stavano sorgendo in città con ritmo accelerato. Mi raccontano che pure per le signore triestine, anche per le stesse commesse impiegate nel negozio, i pezzi di grandi firme erano accessibili visto che Godina lasciava la possibilità di acquisto e pagamento a rate. Forse l’unico negozia in città. Le donne potevano così soddisfare i propri sogni che altrimenti non avrebbero potuto realizzare, e a noi “Jugos”, in possesso del passaporto rosso, quello che all’epoca apriva tutte le porte dell’Occidente, lo sconto del 10% era garantito. Godina era la tappa obbligatoria per chi voleva approvvigionarsi di abbigliamento sportivo sicuro, comodo e allo stesso tempo moderno. Ricordo l’acquisto dei miei primi pantaloni “lastex” da sci, le giacche a vento, le “vinterice”, la ricerca dei costumi da bagno (quelli sì, all’epoca li trovavo troppo «da signore»)… La tappa da Godina era obbligatoria anche soltanto per poter rispondere poi, a chi a Zagabria chiedeva: «cosa si porta a Trieste?».

A dire il vero, “a casa” rimanevano in pochi visto che nei tre giorni di festa della Repubblica, a Trieste si arrivava in massa, la città si sentiva “invasa”, le Rive piene di autobus negli anni ’60 diventarono poi occupate dalle utilitarie di ogni marca e foggia negli anni ’70. Nello studio dello storico sloveno Božo Repe, ribadito anche al recente convegno a Trieste sull’smuggling, ovvero, sul contrabbando, si conferma che negli anni ’60, in occasione delle sole giornate di festa del 29 novembre, Trieste soleva essere la meta di più di 250.000 acquirenti jugoslavi. Nel 1976, dopo il Trattato di Osimo, nella provincia di Trieste a transitare attraverso il confine furono più di 40 milioni di persone, di cui 21 milioni con il passaporto e i 19 milioni con il lasciapassare! Trieste e il suo commercio ne beneficiarono tantissimo. Si potrebbero scrivere romanzi su questa esperienza e sull’arte di attraversare i confini, di occultare la merce ai finanzieri di turno, di portare con se a casa un pezzo del benessere, dell’agognato Occidente. Si potrebbe ricordare pure quei mazzi di banconote che gli acquirenti d’oltreconfine, desiderati e, allo stesso tempo, indesiderati, lasciavano in città. Tempi d’oro per Trieste. Tempi d’oro per i commercianti, nonostante alcuni di loro avrebbero preferito, come ricorda una ex frequentatrice d’oltreconfine dei negozi cittadini, che «questi soldi li avessimo mandati in città senza venirci affatto». Storie di ostilità anche, di nasi turati della borghesia. Mai da Godina uno poteva sentirsi trattato in modo simile. Settant’anni di professionalità, molti dei quali seguiti con fedeltà dagli acquirenti d’oltreconfine. Fino a quando anche loro non diventeranno cittadini di un mondo ex, e nei dintorni delle loro nuove capitali, sorgeranno cittadelle di grandi magazzini di marche internazionali di grido, merce di ogni foggia e provenienza che può soddisfare ogni sogno.

Ma quel mondo triestino che ha saputo tessere rapporti di scambio transnazionale duraturo inciso nella memoria di molti cittadini, in gran parte svanisce con la chiusura di Godina. Il 29 novembre, il Dan Republike di un paese che non c’è più, una morte annunciata simbolica ma che speriamo possa generare nuove nascite commerciali.

Melita Richter

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