Per Aquileiam

22 Maggio 2020

Canale Anfora

L’acqua, i canneti, la sagoma delle Prealpi, quella delle Alpi e i branzini – ormai pochi – che si fiondano a caccia, eccitati, seguendo il moto ondoso.

Navighiamo nelle lagune di Marano e Grado, e lo sguardo cattura le stesse cose avvistate dai Romani, eccezion fatta per i casoni dei pescatori, opere prossime ai giorni nostri. L’area lagunare la perlustriamo a bordo della barchetta di Andrea Fasolo, presidente di Lacus Timavi, associazione di Monfalcone che divulga l’eredità archeologica alto-adriatica. Appena può, viene in questo bacino salmastro: gli è entrato dentro. Il natante di Fasolo è ormeggiato ad Aquileia, sulle sponde del Natissa, una della “vie blu” superstiti della città romana. Seguendone il corso siamo giunti in laguna. Acque basse, fondale melmoso, passaggi obbligati. Navigarla è difficile. I Romani, gente di terra, di mare e d’ingegno, seppero domare quest’area paludosa e mobile. Per farlo ricorrevano anche alle anfore. Disposte in fila sul terreno, assorbivano e stabilizzavano. Dalla laguna le navi accedevano al Canale Anfora. Oggi non è possibile: la bocca è interrata. Il resto del suo corso è però navigabile. Vi si accede dalla confluenza tra Terzo e Natissa, appena fuori Aquileia. Fasolo ci mette la punta della sua barchetta, e inizia la crociera. Il canale è stretto e rettilineo. Lungo gli argini, pareti di canneti. Oltre le sponde, l’aperta campagna. Intanto il sole tramonta. Di colpo si fa freddo, e umido. È bene rientrare ad Aquileia.


Il Canale è un segno del passato rimasto indelebile nel paesaggio di Aquileia. Ci ricorda che i Romani, nel costruire la città e le sue infrastrutture, dovettero far fronte a una situazione idrogeologica molto difficile. Questa straordinaria opera di ingegneria idraulica, lunga 6 km, fu realizzata principalmente a scopo di bonifica come collettore delle acque superficiali. Ma costituì al contempo una via d’accesso diretto dal mare alla città per le navi cariche di merci.