Dopo Timau la strada si arrampica verso il Passo di Monte Croce Carnico. Curve molto strette si fanno largo tra questi monti, ricoperti da boschi.
Una compattezza verde interrotta di tanto in tanto da alberi piegati o completamente stesi a terra: l’effetto micidiale della tempesta Vaia, che nell’autunno del 2018 ha imperversato tra la Carnia e l’area del Cadore, in Veneto. Siamo al passo. Frontiera aperta, effetto Schengen. Sul lato italiano c’è una vecchia caserma sgretolata, oltre la quale si apre il sentiero che porta a fortini e bunker della Grande Guerra. Quassù si combatté aspramente. Poco prima c’è invece uno stradello, lungo il quale si trova una delle tre iscrizioni romane presenti nell’area. La via prosegue verso una malga, ma è sbarrata. Forse una frana dovuta al maltempo? Questo pensiero ci fa riflettere sulla determinazione dei Romani, che per trasportare le loro merci seppero addomesticare lagune, paludi e montagne aguzze, con il loro corredo di insidie fisiche e meteorologiche. Risaliamo in auto. Oltrepassiamo il bar-ristorante situato nell’ex spiazzo doganale, affollato di motociclisti, e sfiliamo davanti alle due pale eoliche che torreggiano appena oltre la frontiera austriaca. Siamo entrati nell’antico Norico.
La strada verso il passo costituiva il tratto più impervio dell’itinerario lungo la valle del Bût. Grazie a solchi lasciati dai carri e a tre iscrizioni scolpite nella roccia conosciamo l’esistenza di più percorsi allestiti nel tempo dai Romani; ancora oggi sono perpetuati da sentieri. Una delle epigrafi ricorda Respectus, schiavo di un appaltatore per la riscossione delle tasse, che nel II secolo d.C. avrebbe ripristinato la strada poiché risultava danneggiata e pericolosa.